Codice Rosso e suicidi in carcere

a cura di Laura Baccaro, psicologa e criminologa

Il fenomeno del suicidio in ambito penitenziario rappresenta un indicatore critico della capacità del sistema penitenziario di fronteggiare la sofferenza psichica dei soggetti reclusi, nonché una cartina di tornasole del funzionamento della giustizia penale nella sua dimensione più umana.

I dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) per l’anno 2024, elaborati dall’Autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, segnalano 83 casi di suicidio nelle carceri italiane. Tra questi, 14 sono correlabili all’applicazione del Codice Rosso: 12 per maltrattamenti in famiglia, 1 per atti persecutori, 1 per violazione delle misure cautelari, ovvero circa il 17% del totale. Dei 14 casi: 2 erano detenuti con sentenza definitiva, 1 appellante, 1 in misura mista e 8 in attesa di primo giudizio. Tutti italiani, in un range anagrafico tra i 28 e i 45 anni. Il dato assume ulteriore rilevanza se confrontato con l’inizio del 2025: 22 suicidi al 28 marzo, di cui 5 riferibili a reati rientranti nel Codice Rosso (3 per maltrattamenti in famiglia, 2 per atti persecutori), pari al 23% del totale. In questo sottoinsieme: 3 erano in attesa di giudizio, 1 in misura mista, 1 definitivo. 4 erano italiani, 1 straniero, con un’età tra i 35 e i 55 anni.

I suicidi in carcere riflettono spesso in modo amplificato il disagio sociale e le disfunzionalità del sistema penale. I dati dei suicidi in carcere sono, da sempre, lo specchio amplificato di ciò che succede e previsionale dell’andamento e del sentire della società. Quando il suicidio riguarda un autore di maltrattamenti in famiglia in attesa di giudizio, l’evento assume una rilevanza specifica, poiché tocca simultaneamente dimensioni identitarie, affettive, penali e istituzionali.

Ad oggi si assiste alla creazione o consolidamento del marchio infame dell’applicazione del “Codice Rosso” specie per il reato di maltrattamento in famiglia. Con l’entrata in vigore della Legge 69/2019, il legislatore ha voluto dare una risposta immediata e prioritaria ai reati di violenza domestica e di genere. Dal punto di vista psico-giuridico, il Codice Rosso introduce una rottura simbolica forte nella vita dell’indagato, che si vede improvvisamente privato della libertà personale senza un processo ancora in corso. Se l’autore non ha strumenti interiori per comprendere la gravità dei propri atti, può vivere questa misura come un’ingiustizia, alimentando vissuti persecutori o reattivi.

Non sono mostri e neppure malati

Il tema dei “maschi violenti” e della loro percezione di sé, così come il loro riconoscimento come autori di reato nelle relazioni affettive, è complesso e intrecciato con fattori psicologici, sociali e culturali. Comprendere come questi uomini si percepiscono e riconoscano (o non riconoscano) la propria violenza è cruciale per sviluppare interventi efficaci.

Nella stragrande maggioranza dei casi i provvedimenti del Codice Rosso riguardano persone con nessun precedente, soggetti che nella loro vita non hanno mai avuto alcun comportamento delinquenziale o deviante secondo i “classici canoni”. Sono persone comuni, padri di famiglia o ex partner, che hanno un lavoro, una casa, un mutuo, dei figli. Avevano una vita “normale” e un quotidiano che garantiva la famiglia e la “normale vita”. Il loro progetto esistenziale riguardava la loro famiglia, da mantenere, i figli da mandare a scuola e i debiti da pagare. La famiglia era il loro tutto, il loro mondo. Da esibire come forma di successo e di uomo arrivato. La casa, sudata e con mutui e finanziamenti decennali, il loro lasciapassare per la normalità. Raccontano che tutto quello che loro hanno fatto è sempre stato per il bene della loro famiglia. Che senza la famiglia sono niente, sono nessuno.

Negli utenti che frequentano i percorsi di trattamento[1], così come previsto dal Codice Rosso, spesso noto che la violenza nasce da un sentimento di helplessness, di fragilità, considerata inammissibile, alla quale cercano di resistere ma in modo non adeguato, ovvero usando la forza.

Raramente sono maschi-padre-padrone, solitamente sono soggetti che faticano a darsi un ruolo sociale, a riconoscersi nello stereotipo dell’essere “maschio” attualmente veicolato. Spesso sono accumunati da un’incomprensione dei fatti, ovvero non riescono a capire cosa sia successo, come mai proprio a loro, perché sono dovuti uscire dalla loro casa. Soprattutto non capiscono come, proprio loro, abbiamo potuto fare “quello che è scritto lì”. L’innominabile.

Dai racconti emerge che usano l’aggressività poiché non sanno che altro fare, non hanno a disposizione, per educazione e cultura, altre modalità. Usano la violenza perché così hanno imparato, spesso sono cresciuti in ambienti violenti o maltrattanti, con vissuti di abbandono verso le figure di riferimento e, sappiamo che la violenza si riproduce come schema relazionale. L’aggressione diventa una scorciatoia per scappare da un confronto dialettico, per evitare l’incontro con l’Altro, per non scoprirsi inadeguati. Ai loro occhi è l’unica soluzione “che altro potevo fare?”, ovvero la ricerca e conferma di un modello adeguato del maschio, del ruolo e di come sta nelle relazioni affettive.

Di contro gli uomini che hanno agito violenza nelle relazioni raccontano spesso episodi che li rappresentano come uomini responsabili, generosi e all’altezza delle aspettative sociali, cercando di costruire un’immagine positiva di sé. Si difendono dall’etichetta di delinquente, di violento, di mostro e di pericoloso. Loro non sono quegli uomini violenti di cui si legge o si sente nella cronaca. A loro è successo questa disgrazia, questo fatto. Ma era la prima volta, la relazione andava bene, ma si, qualche litigio come in tutte le famiglie. L’aggressione “è capitata”.

Insomma descrivono l’aggressività come una sorta di forza innata che arriva e alla quale bisogna imparare a resistere, una sorta di auto-repressione. Si descrivono come persone pacifiche, contro ogni tipo di violenza e che sono molto diversi da “quelli là” (i carcerati, i delinquenti) con i quali “nulla hanno in comune” [2].

Insomma sono uomini che tentano di rispondere alle percepite, ma travisate, richieste sociali e culturali del buon padre e bravo compagno o marito. La loro identità affettiva, personale, sociale è basata e ristretta solo sull’idea della famiglia, idealizzata e messa quale protezione dal mondo ed emblema del successo personale. Una famiglia da loro vissuta come unica realtà possibile per la loro vita: è la sicurezza, è l’identità, è l’affetto. Loro senza famiglia non sono niente. Quindi assistiamo al paradosso di persone che per salvare l’idealizzazione della famiglia la distruggono.

Codice rosso e marchio infamante

Il Codice Rosso si inserisce in questi vissuti e in questi aspetti socio-normativi del quotidiano, spezzandoli. Dal punto di vista archetipico e simbolico, il Codice Rosso non è solo un dispositivo giuridico: è anche un rito pubblico di separazione tra colpa e innocenza, tra vittima e carnefice, tra “casa” e “giustizia”. Infatti il “rosso” richiama il sangue, l’emergenza, e anche la colpa morale.

È un’accelerazione del processo (la vittima viene ascoltata entro 3 giorni) e così produce un tempo narrativo della giustizia molto veloce, che impone un’accelerazione anche emotiva: sia la vittima che l’autore si trovano inseriti in una dinamica di rottura e riorganizzazione identitaria per la quale spesso non hanno strumenti psichici adeguati.

Ma la cosa che più destabilizza il soggetto indagato è che viene bruscamente “espulso” dalla quotidianità familiare e sociale, in un movimento che ricorda l’archetipo della cacciata dal villaggio o della demonizzazione del trasgressore. Infatti il Codice Rosso agisce anche sul piano dello spazio simbolico della casa: ovvero la casa, tradizionalmente luogo di protezione e intimità, viene riconfigurata come spazio di potenziale violenza; in più l’autore, spesso figura genitoriale o partner, viene espulso da quello spazio (tramite allontanamento, divieti di avvicinamento), trasformandosi da figura di cura a figura di minaccia.

Questa trasformazione ha effetti devastanti sulla struttura identitaria dell’autore, soprattutto se non dispone di un pensiero critico sul proprio agito: “Non sono più il padre che protegge, ma l’uomo che distrugge. La casa non è più il mio rifugio, ma la prova del mio fallimento.”

In questa ottica, il Codice Rosso diventa una sorta di mito contemporaneo della protezione, dove lo Stato assume il ruolo di salvatore e il colpevole viene simbolicamente sacrificato all’altare della sicurezza pubblica e dell’integrità familiare. E in questa dinamica veloce spesso anche le vittime faticano a ritrovarsi nel loro spazio, non riescono a capire cosa sia accaduto al loro congiunto. Devono anche loro ritrovare spazi e tempi, una nuova quotidianità e nuove sicurezze. A volte anche economiche.

Tuttavia, nel suo impatto reale, il Codice Rosso ha assunto una valenza anche simbolica e stigmatizzante, rappresentando – per molti autori di reato– un “marchio infamante”. In particolare, nei casi di maltrattamenti in famiglia, esso segna una frattura narrativa tra l’immagine sociale e personale dell’individuo e la nuova identità: quella dell’aggressore, del violento. In questa ottica, il Codice Rosso non è solo una misura di tutela giuridica, ma una “sanzione sociale anticipata”poiché agisce come etichetta pubblica e immediata, anche prima della condanna definitiva.

Dal punto di vista clinico-psicologico, il passaggio da “padre”, “marito”, “compagno” a “uomo violento” può rappresentare una rottura identitaria traumaticaa seguito diun meccanismo che isola l’autore dal contesto familiare, relazionale e comunitario, producendo una condizione simile a quella del messo al bando. Spesso non riesce a capire perché “improvvisamente” quel suo comportamento, se reiterato, “invisibile” e praticato per anni, viene improvvisamente riconfigurato come criminale, e lui si trovi etichettato come moralmente deviante, e pericoloso nei confronti delle persone della sua famiglia. Tanto pericoloso per la famiglia da entrare in carcere.

Ingresso in carcere e frattura identitaria

Dal punto di vista psicologico, l’ingresso in carcere per un autore di maltrattamenti produce una rottura identitaria improvvisa, in particolare quando avviene in regime di custodia cautelare, spesso anticipato da una denuncia attivata in regime di “Codice Rosso”.

L’ingresso in carcere, se improvviso e vissuto come “incomprensibile” dal soggetto, soprattutto in fase cautelare e in assenza di una sentenza definitiva, è un evento traumatico che può attivare una condizione psichica di disorganizzazione acuta, nota in letteratura come shock da incarcerazione. Per l’autore di maltrattamenti, la detenzione può equivalere a un crollo dell’intera struttura difensiva: la sua figura genitoriale, di partner, di capofamiglia o  di “autorità domestica” viene negata e rovesciata nel suo opposto (quella del carnefice o del colpevole), generando in lui un’implosione psichica. Il soggetto vive così un’estrema condizione di sofferenza caratterizzata da un collasso del sè, dalla perdita del ruolo familiare, con vissuti di esclusione e umiliazione sociale e perdita totale dell’identità pregressa, spesso vissuta in maniera idealizzata. La detenzione, l’interruzione dei contatti familiari, l’isolamento e la prospettiva di un percorso giudiziario sconosciuto possono provocare:

  • un crollo dell’identità (“non sono più un padre/un compagno, ma un mostro”);
  • una vergogna estrema, non elaborabile né comunicabile;
  • un vissuto di disgregazione interna e una perdita di controllo.

Nei casi in cui l’autore non ha strumenti per comprendere cosa stia accadendo, cosa succederà a lui e alla sua famiglia, per poter parlare con i famigliari per capire chi e come si farà a pagare tutto, a continuare a mantenere la sua famiglia, per elaborare se ci sarà un futuro possibile, non solo per lui ma per tutta la famiglia, può insorgere ideazione suicidaria, percepita come unica via d’uscita da una condizione vissuta come insostenibile: è lui che ha messo a rischio la sua famiglia e di questo è colpevole.

Spesso la percezione da parte dell’autore di essere stato condannato moralmente prima ancora del processo, alimenta vissuti persecutori, disorganizzazione psichica, e nei casi estremi l’ideazione suicidaria. La persona vive un collasso delle difese psicologiche, in particolare quando non riesce più a sostenere un’immagine coerente di sé. Dal punto di vista clinico-forense, il rischio suicidario può essere interpretato come l’esito estremo di una serie di meccanismi interni non elaborati quali:

  • vergogna e senso d’indegnità: il soggetto vive una condizione di disregolazione affettiva, spesso sono presenti meccanismi dissociativi, questi vissuti, alimentando inadeguatezza e disagio personale, possono presentarsi in modo dolorosamente consapevole
  • colpa persecutoria: l’autore non si perdona, ma non riesce nemmeno a mentalizzare i fatti contestatigli e il danno e la colpa si trasforma in autodistruzione. lui ha distrutto la sua famiglia, se la sua famiglia e i suoi figli vivranno male, senza soldi, o a rischio della casa del mutuo è solo ed esclusivamente per colpa sua. Non è riuscito ad essere un buon marito, un bravo compagno, un bravo padre.
  • collasso psico-affettivo: la perdita di controllo, di ruolo sociale e relazionale, provoca una frattura del Sé.
  • anedonia esistenziale: la vita perde significato, in quanto il soggetto non intravede né redenzione né reintegrazione possibile. Non è più un uomo e non ha futuro.

Da un punto di vista criminologico, i media agiscono come strumento di pressione penale informale: la colpevolezza viene presunta prima ancora dell’accertamento giudiziario, l’etichetta di “uomo violento” oramai è presente, e in questi soggetti, soprattutto, alimenta reazioni identitarie difensive o autodistruttive.

In ambito criminologico, il suicidio dell’autore in fase cautelare rappresenta un cortocircuito tra diritto e giustizia. È la pena prima di un giudizio di, a volte, condanna. L’individuo non ha ancora ricevuto una condanna, ma ha già subito una rottura radicale nella vita quotidiana, con arresto, esposizione pubblica e perdita dei legami significativi.

L’ambiente carcerario, se non adeguatamente preparato e supportato, può rappresentare un moltiplicatore del rischio suicidario, specialmente nei primi giorni o settimane di detenzione preventiva.

La carenza di protocolli sistematici di valutazione del rischio suicidario all’ingresso con protocolli specifici per autori di reati familiari o relazionali, unitamente all’assenza di programmi trattamentali individualizzati in fase cautelare, costituisce una grave lacuna del sistema penitenziario.

Umanizzare la pena, senza giustificare la violenza, significa anche proteggere la vita di chi ha sbagliato, ma può ancora comprendere, cambiare e riparare. Solo in questo modo si potrà evitare che la giustizia si trasformi in un meccanismo di annientamento identitario, e che il suicidio resti l’unico esito possibile per chi ha sbagliato, ma non ha avuto strumenti per comprendere, cambiare e riparare.


[1] Sono responsabile del Centro padovano trattamento psicocriminologico, Cuav della Regione Veneto, https://www.psicologodistrada.it/sportello-stalking/centro-trattamento-autori-reato/

[2] Per approfondimento di Baccaro L., La prospettiva maschile nella violenza di genere, in Baccaro L., Gherardi L., et al., Maschilità e relazioni affettive: prospettive cliniche e strumenti operativi, Alpes, 2025.